Colpevole di estorsione il datore di lavoro che, dietro minaccia di immediato licenziamento, pretende la restituzione di parte delle somme versate in busta paga

Rigettando l’impugnativa avverso un provvedimento coercitivo personale, la Corte di Cassazione torna a delineare la condotta del datore che pretende la restituzione di parte dello stipendio corrisposto ai lavoratori subordinati. Ciò che importa disvalore penalistico della condotta, secondo la massima in commento, non è tanto l’elusione delle prescrizioni che governano il rapporto lavorativo, bensì le modalità con cui tale risultato venga raggiunto.  CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE – SENTENZA 1 febbraio 2012, n.4290

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE – SENTENZA 1 febbraio 2012, n.4290 – Pres. Casucci – est. Rago
Fatto1. Con ordinanza del 13/09/2011, il Tribunale di Caltanissetta confermava l’ordinanza con la quale, in data 19/07/2011, il gip. del Tribunale della medesima città aveva applicato, nei confronti di (…), indagato per il reato di estorsione ai danni dei lavoratori della propria azienda, la misura degli arresti domiciliari.
2. Avverso la suddetta ordinanza, l’indagato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
1. Violazione dell’art. 629 c.p.: sostiene il ricorrente che il Tribunale, lasciatosi fuorviare dalla violazione del contratto collettivo di lavoro in ordine alle retribuzioni corrisposte, non aveva considerato che, in nessuna delle tre condotte contestate [1) prospettazione della mancata assunzione; 2) minaccia di licenziamento; 3) prospettazioni di privare i lavoratori che si erano licenziati di altre possibilità occupazionali, facendo loro “terra bruciata” intervenendo presso altri imprenditori], erano ravvisabili gli estremi della minaccia e che se questa vi era stata, era stata successiva all’accordo di lavoro. In altri termini, secondo il ricorrente, non vi era alcun indizio che potesse suffragare l’ipotesi accusatoria.
2. violazione dell’art. 275 C.p.p. per non avere il Tribunale considerato il pericolo di reiterazione (individuato nel fatto che il ricorrente avrebbe potuto continuare a contrattare le retribuzione in deroga con altri operai) avrebbe potuto essere «validamente e radi tute eliminato utilizzando temporaneamente l’art. 290 c.p.p.».

Diritto

1. violazione dell’art. 629 c.p.: in punto di diritto, va ribadita la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale «integra il delitto di estorsione della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributiva trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi»: Cass. 36642/2007 Rv. 238918 – Cass. 16656/2010 Rv. 247350 – Cass. 656/2009 Rv. 246046 – Cass. 48868/2009.
In punto di fatto, il Tribunale ha ritenuto che i gravi indizi fossero costituiti:
– dalle concordi ed univoche dichiarazioni rese da due dipendenti (…) e (…) i quali avevano affermato che, condicio sine qua non, per essere assunti era l’accettazione di condizioni di pagamento inferiori rispetto a quelle contrattuali sebbene, formalmente, tutto risultava in regola, condizioni che avevano accettato, sia pure obtorto collo. In particolare, la retribuzione, formalmente corrispondente a quella dei contratti collettivi, veniva corrisposta mediante assegno, dovendo, poi, i lavoratori «restituire la differenza in contanti nelle mani della segretaria dell’indagato, attestante l’avvenuto pagamento dell’intero importo indicato in busta paga, mediante una firma apposta su apposita quietanza di pagamento»;
– le intercettazioni telefoniche fra l’indagato ed il avevano riscontrato la veridicità delle dichiarazioni rese dai due operai;
– l’intercettazione telefonica fra il (…) ed un altro imprenditore (…) ai quale il primo si era rivolto invitandolo a non assumere gli operai che si erano licenziati dalla propria azienda, proprio per far loro intorno terra bruciata e per ‘farli soffrire’.
Non è vero, quindi come sostiene il ricorrente che non vi siano indizi sulle minacce rivolte ai momento dell’assunzione: in realtà, il Tribunale, correttamente richiamando la pacifica giurisprudenza di questa Corte di legittimità in ordine alla configurabilità della minaccia anche se questa è larvata o implicita, ha rilevato che la minaccia (neppure tanto implicita o larvata) veniva, sistematicamente, rivolta a chi si proponeva di essere assunto, proprio al momento dei colloqui per l’assunzione e consisteva della mancata assunzione o nel successivo licenziamento se non avessero accettato la corresponsione di te enti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate.
La tesi difensiva del ricorrente – secondo la quale la pattuizione era libera sicché, nella fattispecie ravvisabile, al più, una violazione della normativa lavoristica in tema di trattamento retributivo inferiore a quello dovuto – è fuorviarne rispetto alla ricostruzione dei fatti così come effettuata dal Tribunale.
Infatti, quand’anche si volesse convenire che la pattuizione di un salario inferiore a quello stabilito dai contratti collettivi di lavoro non costituisce, in sé e per sé, ima estorsione, ciò che, nella fattispecie, trasforma il semplice illecito civile in quello penale, è costituito dalle modalità – stabilite già al momento dell’ assunzione – con le quali la pretesa “libera” pattuizione veniva, poi, mensilmente attuata.
Infatti se davvero la pattuizione fosse stata “libera”, non si vede per quale motivo, doveva essere rigorosamente tenuta nascosta attraverso il marchingegno descritto dagli operai e cioè che, al momento della corresponsione del salario, il lavoratore, da una parte, doveva firmare una quietanza corrispondente all’importo della busta paga e, dall’altra, doveva, poi, restituire, in contanti, la differenza, pena l’immediato licenziamento ed il concreto pericolo di non potere più trovare lavoro presso altri imprenditori a seguito delle pressioni che l’Indagato avrebbe fatto presso i suoi colleghi affinché non li assumessero.
In altri termini, le modalità sia dell’assunzione (pagamento inferiore a quello contrattuale), sia delle modalità con le quali veniva corrisposto il salario, configurano, da una parte, l’elemento oggettivo della minaccia (o il lavoratore accettava non solo di essere sottopagato ma anche di firmare una quietanza per una somma superiore della quale, poi, doveva restituire la differenza, oppure non veniva assunto o, se assunto, veniva licenziato) sia l’elemento dell’ingiusto profitto da parte dell’indagato che, con le suddette modalità, non solo otteneva che i dipendenti lavorassero per lui sottopagati, ma anche si tutelava dalle eventuali azioni civilistiche dei lavoratori tese ad ottenere quanto loro dovuto.
Tanto basta, allo stato, per ritenere la sussistenza dei gravi indizi del contestato reato di estorsione.
2. Violazione dell’art.275 c.p.p.: il tribunale, dopo avere ampiamente illustrato le esigenze cautelari (pag. 9 ss), ha ritenuto che le medesime potessero essere tutelare solo con gli arresti domiciliari in quanto «misure meno afflittive non assicurerebbero adeguatamente le pregnanti esigenze cautelari […] non garantendo, in particolare, che l’indagato si astenga dall’intervenire su soggetti riconducibili alla sua presente o passata organizzazione aziendale […]».
Si tratta di motivazione congrua, logica ed adeguata sicché la censura dedotta deve ritenersi infondata perché il tribunale ha dato atto di aver valutato le misure meno afflittive (e, quindi, anche quella di cui all’art. 290 c.p.p.) ma di non averle ritenute sufficienti (in relazione ai fatti ed alla situazione ambientale ed aziendale) a tutelare le esigenze cautelari.
3. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

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Studio Legale Avvocato Francesco Noto Cosenza

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